Pelagio Palagi
Ila rapito dalle ninfe, 1810 ca
Olio su tela
170x215 cm
'Mi pare che dopo la solenne pubblicazione dello Sposalizio di Amore e Psiche (approdato ai fasti dell’Art Institute di Detroit) da parte di K. Lankheit, uno storico al quale, se...
"Mi pare che dopo la solenne pubblicazione dello Sposalizio di Amore e Psiche (approdato ai fasti dell’Art Institute di Detroit) da parte di K. Lankheit, uno storico al quale, se fosse stato meglio recepito, il Palagi dovrebbe molto, ed altre poche addizioni, anche mie, nessuna scoperta altrettanto importante sia avvenuta col corpus palagiano. Ma ora è la volta del suo dipinto con Ila e le ninfe, rammentato dall’autore medesimo nell’autobiografia e molto considerato nell’entourage romano coevo, come fa fede l’elogio di Giuseppe Tambroni. In effetti si tratta dell’opera pittorica esteticamente più bella della prima maturità del Palagi e problematicamente più complessa che fino ad oggi sia emersa. E non solo di lui, ma altresì forse di quell’intero e ancora in parte oscuro primo decennio dell’Ottocento in Italia, che essa viene così singolarmente a sigillare. E mi pare contribuisca in via definitiva a consolidare a un livello alto l’immagine del pittore bolognese.
Si tratta di una gran tela orizzontale, luminosa (e decorativa) come un affresco, con al centro il viluppo di tre ragazze ignude e un ragazzo, grandi il vero, sotto una ripa incombente tagliata in obliquo, tale da rammentare uno stilema, caro anche al Mengs, di uno spazio ipogeico, ancorché a cielo aperto, secondo un gusto diffuso forse dall’immagine dei cantieri di scavo (non necessariamente archeologico). In essa si apre una caverna di vivo sasso, mentre un cannocchiale di cielo filtra tra il fitto pungente dei lecci in alto a sinistra. Davanti s’allarga opaco uno stagno, gremito di vegetazione palustre; la superficie lievemente increspata lascia appena trasparire parte delle molli membra sommerse. La rappresentazione coglie della favola (che vedremo meglio poi) il momento in cui il racconto sta per farsi più drammatico: intorno al giovane in bilico che attinge a una cascatella sorgono d’improvviso dalle acque le ninfe e quello che poteva, a prima vista, apparire un piacevole gioco s’avverte che sta per precipitare in tragedia.
Questo dipinto mi si è parato innanzi un giorno qualunque, del tutto anonimo, quasi una carta geografica muta, ma mi ha subito colpito per i segnali che manda: cioè l’alta qualità e insieme la mano del Palagi, un artista che mi pare nel primissimo Ottocento il maggiore pittore in Italia dopo l’Appiani (col quale sul piano antiquariale viene talvolta confuso, grazie anche a false segnature) ove lo si consideri un neoclassico, e viceversa il primo, qualora s’intenda, come ora s’apprende, quale romantico; ciò che del resto meglio spiega e prelude alla sua pittura nel genere troubadour, della quale egli diviene in seguito comunque il numero uno da noi.
La materia, sottile e vetrina come di smalto, o di pittura da vasi di Sèvres, concorre con la sua levità irrealistica ad elevare il tono artificioso e cioè in sublimità il racconto antico, il cui pathos tuttavia ritorna, come il fato nella favola, implacabile. L’idea più originale è certo quella delle ninfe considerate alla stregua di incarnazioni di forze telluriche: flessuosi inquietanti animali dai gesti arcaici, dotate di quella prepotente naturalità che sconfina nella bellezza. Altrettanto suggestivo è l’ambiente selvaggio che ripropone le rocce, le erbe e gli alberi, che si trovano rappresentati ancora oggi nella medesima guisa in qualunque borro del Lazio, massime nel favoloso viridario e nelle grotte che si spalancano sotto le celebri cascate di Tivoli.
Andando a scartabellare i documenti dell’artista all’Archiginnasio di Bologna ci si imbatte subito nella citata Autobiografia, ove quest’opera appare collocata dopo il su ricordato Sposalizio e prima degli affreschi di Palazzo Torlonia, vale a dire tra il 1809 e il ’13, e vi figura pure il nome del committente, un tale Andrea Berti. Ciò è confermato dal Tambroni, nel rammentato memoriale, che la colloca dopo il Mario a Minturno, che è del 1809 o ‘10.
Se poi si butta l’occhio alla sequenza delle opere note del catalogo palagiano è osservabile che la cronologia si può meglio stringere, essendo chiaro che questo Ila è del medesimo tempo o, meglio, immediatamente dopo, del Leonida e Cleombroto (non reperito, ma del quale un modello si trova nelle Raccolte Comunali di Bologna), ove sono evidenti relazioni con lo stile di Gaspare Landi, la cui commissione cade nel 1808: mentre il Giulio Cesare che detta ai segretari (Roma, IstitutoItalo-Latinoamericano), che è del 1812, in cui è un palese camuccinismo (che persisterà in tutte le future rievocazioni, anche anacronistiche, di storia antica), sembrerebbe un qualcosa successivo. Allo stato attuale delle conoscenze si potrebbe addirittura azzardare una datazione al 1809 circa, stante che in un disegno di quell’anno (con Giove e Teti, Venezia, Accademia) di Hayez sembra coincidere il gesto lievemente forzato della prima ninfa a sinistra.
Stabiliti questi primi capisaldi attribuzionistici e cronologici, e prima di passare all’ermeneutica del dipinto, partendo magari dal percorso mentale della composizione, dai suoi antefatti e dalle sue fonti, per poi vederne l’eventuale fortuna, occorrerà completare il quadro storico generale in cui esso viene a collocarsi.
Tra i disegni del fondo palagiano dell’Archiginnasio bolognese è uno schizzo, che sembra costituire il primo pensiero sufficiente ad indicare quale lungo processo sia occorso per arrivare alla splendida realizzazione finale. Un altro paio di disegni, sempre ivi, e un paio di oli riprendono il tema delle foglie di borrana, che si trovano nel quadro in basso a sinistra, con un’insistenza che indica un rapporto storico preciso col gusto, naturalistico fino allo scientificismo, dei tedeschi a Roma, da Hackert a Kolbe. Queste referenze confermano in pieno la felice intuizione del Lankheit, che vide nel Palagi una connessione con Ph. Otto Runge, come dire col maggiore dei romantici tedeschi. In questo contesto risalta tuttavia anche l’italianità del nostro artista, corrispondente a un maggiore realismo e ad una minore visionarietà; e ne esce ribadita l’apertura europea in senso più romantico che classicistico. Vale a dire il ricordo ai Primitivi e al rinascimento più che all’Antico, testimoniato dalle reminiscenze dalla pittura e dalla miniatura bolognese del trecento, e poi da Antonello da Messina (nel volto dell’Ila, che somiglia al tipo dell’Ecce Homo), al Correggio (nella fanciulla di sinistra, che vagamente ricorda la S. Caterina della pala omonima in Parma), al leonardismo (nella botanica, ove si scorgono almeno una dozzina di morfologie, esclusi gli alberi), a Giovanni Bellini (nella dolcezza della pittura d’unione), eccetera.
Il contrapposto della figura di Ila è quello che ricorda maggiormente la statuaria antica, in particolare certi luoghi del Laocoonte, ma non è nemmeno da escludere il filtro reniano. Acutamente il Tambroni aveva fatto per il Palagi il nome di Domenichino e certo non si può negare, anche qui, un riflesso del suo celebre Bagno di Diana della Borghese, se non nelle immagini, almeno in quello struggente afflato panico di comunione tra creature e natura.
A parte ciò, il dato romantico è osservabile soprattutto nella scelta e nello studio dei modelli dal vivo, ove è evidente il tentativo di realizzare immagini di una naturalezza anzi, oserei dire, di una naïveté in cui rivive il mito illuministico del “buon selvaggio”, secondo una linea che porta da coteste ninfe rustiche agli indigeni d’America nel Ritorno di Colombo per Francesco Peloso. Per il resto, l’insieme appare derivato dalla tipologia antica del soggetto: vedi per lo meno il litostrato già in collezione del Cardinale Camillo Massimo e poi Albani a palazzo Del Drago in Roma.
Quali fossero piuttosto le fonti stilistiche moderne del Palagi ora sarà più chiaro da codesti e dai successivi riscontri. Occorrerà appigliarsi infatti, per l’ambiente, anche al grande paesismo neoclassico romano di cui Tambroni tesse l’elogio e la storia; per le figure, al Canova, di cui non è dubbio che in una di queste bagnanti ritorni il modello della Eva Sommariva ed è quella, guarda caso, che per la sua espressione un poco melensa, derivante dall’iconologia secentesca dell’anima beata, tornerà nella Maddalena hayeziana del ‘25, a testimoniare anche un filtro tra canova e Hayez, oltre alla presa diretta. Pure il viso di questa figura richiama l’espressione del primo ritratto canoviano della Récamier in guisa di Beatrice, ancorché qui si tratti di una bimba poco più che cresciutella e il contesto del racconto sia diametralmente opposto. Occorrerà aggiungere che la rappresentazione regressiva della pubertà delle favole erotiche è anch’essa, non dimentichiamolo, un tropo canoviano. Canoviano è ancora il motivo dei capelli bagnati (dalla Maddalena svenuta, per esempio), come lo è il modellato del nudo femminile da tergo (dalle Grazie), o di quella mano che posa sulle carni di Ila lieve come se poggiasse su una tastiera.
Tra tutti codesti ingredienti emerge lo stile personale dell’artista, che è di una originalità tale da potersi riconoscere a colpo d’occhio, non senza tracce del sedimento culturale autoctono, per esempio di certi nudi del conterraneo Franceschini. Tra le cose più imprevedibili, e però palagiane, sarà da collocare l’acconciatura della naiade bionda in contrappunto col bellissimo vaso d’oro, delle silhouettes (con qualche reminiscenza dai disegni di Flaxman) in rapporto alle variazioni sottili degli incarnati perlacei, rosati, alabastrini; mentre la gestualità circonvoluta rievoca l’antica e la moderna pittura vascolare.
Di fronte a un’opera come questa è inevitabile lasciarsi andare a considerazioni che potrebbero suonare peregrine e non sono, perché proprio solo dalla sua immagine assolutamente nuova e non déjà vue provengono. Si guardino gli atteggiamenti delle teste. Quello della ninfa a sinistra, anche se un poco turgido (ma per necessità tematiche) è di una concretezza di definizione e insieme di un tipo somatico che, se avulso dal contesto, potrebbe esser databile, perché ancora di moda vent’anni dopo, tra gusto tardonazareno e biedermeier. Analogamente quello del giovinetto non ha quasi nulla di strettamente neoclassico ma un’età assai più vaga rispetto al 1810, potrebbe essere di dieci anni innanzi come di dieci dopo: questi volti fan quasi venire alla mente gli Hänsel e Gretel della celebre favola. Le due figure a destra sembrano più databili: di quello dell’una, s’è detto; dell’altra, che è la più ansiosa, si può osservare che per la sua acconciatura impero è l’unica che mostri la propria età. Al di là degli atteggiamenti, cheper certi versi ci restituiscono i loro modelli viventi nelle cui fattezze particolari è chiaro che l’artista li ha lasciati in qualcosa indugiare, sarà da osservare la bellezza del paesaggio così ricco di umori e tinte, talmente ben architettato che potrebbe star su da sè solo, senza figure. Anche in esso non sai se apprezzare più la finzione palpabile del luogo ideale dell’immaginazione, quindi il dato classico, o le diverse maniere in cui esso è dipinto, che vanno appunto dal disegno netto di arbusti o fogliami, che ha l’acume delle pagine d’un erbario, a un pittoresco macchiato tutto di tocco e di gesto, che della natura cerca di trasmettere la vibrazione umida e atmosferica, il respiro silenzioso.
Venendo ora alla fortuna di questo dipinto, fin troppo scarsa a dire il vero, è osservabile che dal lato iconografico è palese che un grande e bel disegno di Bartolomeo Pinelli, del 1824 (Museo di Roma), dipende in qualcosa da questo prototipo, seppure esso sia in chiave classicista (e tuttavia filologicamente meno corretta, perché nel Palagi il solo Ila giustamente ha la clamide) e in un certo senso banalizzato dal contenuto erotico fin troppo ingenuamente illustrativo. Dal lato stilistico non è chi non veda come la pittura di Hayez del momento del suo Rinaldo e Armida, che è del 1813, si rifaccia a questo modello anche se il suo tipo di paesaggio sembra quello di un papier-peint, mentre quello del nostro è ancora “vero”.
Il discorso è importante, perché investe il problema generale del debito di Hayez (che pure dipinse un Ila, oggi sconosciuto) nei confronti del più anziano e provetto collega, quale ho già abbozzato in altra sede. Del resto, come è noto, anche con l’opera ora a Detroit il Palagi veniva a costituire un significativo precedente per Giove e Teti dell’Ingres. Fu il Palagi stesso a invitare Hayez a collaborare con lui a Palazzo Torlonia, come conferma ulteriormente una lunetta in tela da me ritrovata. Tornando all’eredità del nostro quadro sappiamo di un Ila pure del Podesti, che però non è noto. E’ noto invece quello, bellissimo, del Sogni, che tuttavia si colloca ormai troppo defilato da questa rappresentazione, benché un’altra opera capitale di questo maestro, cioè l’Adamo ed Eva, che è del ’38, mostri specie nella figura di quest’ultima, quanto l’Ila del Palagi avesse fato scuola.
Qualche parola resta da spendere sul risvolto emblematico di cotesta favola antica, che era una metafora della morte bella, anche se il Palagi, svolgendone i dati impliciti, la ripropone in un’accezione anche dolente, mischiandola col tema diverso di Salmace ed Ermafrodito (altra favola erotico-fluviale), cioè dell’amore impossibile: ciò che porta il dramma sul paiano dell’ambiguità e a un livello criptico indubbiamente sottile. Il mito dice infatti di un giovinetto amati da Ercole, sceso ad attingere acqua dalla nave degli Argonauti. E dell’involontaria insidia tesagli dalle naiadi del luogo che, concupendolo, ne provocano la caduta nello stagno e l’annegamento. Palagi vi aggiunge il motivo della naturale ritrosità dell’androgino per l’amplesso femminile, e ancora quello della paura (col suggerire la pericolosità del precario equilibrio del giovinetto), dell’incubo (per l’analitica rallentata e quindi ossessiva dei gesti), del presagio della morte (attraverso l’immagine del versamento, simbolo dell’oblio), in una sorta di congesta“selva amorosa”. La quale, al di là delle reminiscenze classicistico-erudite ancora dominanti nello Sposalizio di Psiche, riesce per il suo mero elegiaco del tutto moderna, e affatto romantica, appunto".
Gian Lorenzo Mellini
Testo pubblicato in “Labyrinthos” (12, 1987, pp. 54-71) con il titolo L’“Ila e le ninfe” e altre cose di Pelagio Palagi.
Si tratta di una gran tela orizzontale, luminosa (e decorativa) come un affresco, con al centro il viluppo di tre ragazze ignude e un ragazzo, grandi il vero, sotto una ripa incombente tagliata in obliquo, tale da rammentare uno stilema, caro anche al Mengs, di uno spazio ipogeico, ancorché a cielo aperto, secondo un gusto diffuso forse dall’immagine dei cantieri di scavo (non necessariamente archeologico). In essa si apre una caverna di vivo sasso, mentre un cannocchiale di cielo filtra tra il fitto pungente dei lecci in alto a sinistra. Davanti s’allarga opaco uno stagno, gremito di vegetazione palustre; la superficie lievemente increspata lascia appena trasparire parte delle molli membra sommerse. La rappresentazione coglie della favola (che vedremo meglio poi) il momento in cui il racconto sta per farsi più drammatico: intorno al giovane in bilico che attinge a una cascatella sorgono d’improvviso dalle acque le ninfe e quello che poteva, a prima vista, apparire un piacevole gioco s’avverte che sta per precipitare in tragedia.
Questo dipinto mi si è parato innanzi un giorno qualunque, del tutto anonimo, quasi una carta geografica muta, ma mi ha subito colpito per i segnali che manda: cioè l’alta qualità e insieme la mano del Palagi, un artista che mi pare nel primissimo Ottocento il maggiore pittore in Italia dopo l’Appiani (col quale sul piano antiquariale viene talvolta confuso, grazie anche a false segnature) ove lo si consideri un neoclassico, e viceversa il primo, qualora s’intenda, come ora s’apprende, quale romantico; ciò che del resto meglio spiega e prelude alla sua pittura nel genere troubadour, della quale egli diviene in seguito comunque il numero uno da noi.
La materia, sottile e vetrina come di smalto, o di pittura da vasi di Sèvres, concorre con la sua levità irrealistica ad elevare il tono artificioso e cioè in sublimità il racconto antico, il cui pathos tuttavia ritorna, come il fato nella favola, implacabile. L’idea più originale è certo quella delle ninfe considerate alla stregua di incarnazioni di forze telluriche: flessuosi inquietanti animali dai gesti arcaici, dotate di quella prepotente naturalità che sconfina nella bellezza. Altrettanto suggestivo è l’ambiente selvaggio che ripropone le rocce, le erbe e gli alberi, che si trovano rappresentati ancora oggi nella medesima guisa in qualunque borro del Lazio, massime nel favoloso viridario e nelle grotte che si spalancano sotto le celebri cascate di Tivoli.
Andando a scartabellare i documenti dell’artista all’Archiginnasio di Bologna ci si imbatte subito nella citata Autobiografia, ove quest’opera appare collocata dopo il su ricordato Sposalizio e prima degli affreschi di Palazzo Torlonia, vale a dire tra il 1809 e il ’13, e vi figura pure il nome del committente, un tale Andrea Berti. Ciò è confermato dal Tambroni, nel rammentato memoriale, che la colloca dopo il Mario a Minturno, che è del 1809 o ‘10.
Se poi si butta l’occhio alla sequenza delle opere note del catalogo palagiano è osservabile che la cronologia si può meglio stringere, essendo chiaro che questo Ila è del medesimo tempo o, meglio, immediatamente dopo, del Leonida e Cleombroto (non reperito, ma del quale un modello si trova nelle Raccolte Comunali di Bologna), ove sono evidenti relazioni con lo stile di Gaspare Landi, la cui commissione cade nel 1808: mentre il Giulio Cesare che detta ai segretari (Roma, IstitutoItalo-Latinoamericano), che è del 1812, in cui è un palese camuccinismo (che persisterà in tutte le future rievocazioni, anche anacronistiche, di storia antica), sembrerebbe un qualcosa successivo. Allo stato attuale delle conoscenze si potrebbe addirittura azzardare una datazione al 1809 circa, stante che in un disegno di quell’anno (con Giove e Teti, Venezia, Accademia) di Hayez sembra coincidere il gesto lievemente forzato della prima ninfa a sinistra.
Stabiliti questi primi capisaldi attribuzionistici e cronologici, e prima di passare all’ermeneutica del dipinto, partendo magari dal percorso mentale della composizione, dai suoi antefatti e dalle sue fonti, per poi vederne l’eventuale fortuna, occorrerà completare il quadro storico generale in cui esso viene a collocarsi.
Tra i disegni del fondo palagiano dell’Archiginnasio bolognese è uno schizzo, che sembra costituire il primo pensiero sufficiente ad indicare quale lungo processo sia occorso per arrivare alla splendida realizzazione finale. Un altro paio di disegni, sempre ivi, e un paio di oli riprendono il tema delle foglie di borrana, che si trovano nel quadro in basso a sinistra, con un’insistenza che indica un rapporto storico preciso col gusto, naturalistico fino allo scientificismo, dei tedeschi a Roma, da Hackert a Kolbe. Queste referenze confermano in pieno la felice intuizione del Lankheit, che vide nel Palagi una connessione con Ph. Otto Runge, come dire col maggiore dei romantici tedeschi. In questo contesto risalta tuttavia anche l’italianità del nostro artista, corrispondente a un maggiore realismo e ad una minore visionarietà; e ne esce ribadita l’apertura europea in senso più romantico che classicistico. Vale a dire il ricordo ai Primitivi e al rinascimento più che all’Antico, testimoniato dalle reminiscenze dalla pittura e dalla miniatura bolognese del trecento, e poi da Antonello da Messina (nel volto dell’Ila, che somiglia al tipo dell’Ecce Homo), al Correggio (nella fanciulla di sinistra, che vagamente ricorda la S. Caterina della pala omonima in Parma), al leonardismo (nella botanica, ove si scorgono almeno una dozzina di morfologie, esclusi gli alberi), a Giovanni Bellini (nella dolcezza della pittura d’unione), eccetera.
Il contrapposto della figura di Ila è quello che ricorda maggiormente la statuaria antica, in particolare certi luoghi del Laocoonte, ma non è nemmeno da escludere il filtro reniano. Acutamente il Tambroni aveva fatto per il Palagi il nome di Domenichino e certo non si può negare, anche qui, un riflesso del suo celebre Bagno di Diana della Borghese, se non nelle immagini, almeno in quello struggente afflato panico di comunione tra creature e natura.
A parte ciò, il dato romantico è osservabile soprattutto nella scelta e nello studio dei modelli dal vivo, ove è evidente il tentativo di realizzare immagini di una naturalezza anzi, oserei dire, di una naïveté in cui rivive il mito illuministico del “buon selvaggio”, secondo una linea che porta da coteste ninfe rustiche agli indigeni d’America nel Ritorno di Colombo per Francesco Peloso. Per il resto, l’insieme appare derivato dalla tipologia antica del soggetto: vedi per lo meno il litostrato già in collezione del Cardinale Camillo Massimo e poi Albani a palazzo Del Drago in Roma.
Quali fossero piuttosto le fonti stilistiche moderne del Palagi ora sarà più chiaro da codesti e dai successivi riscontri. Occorrerà appigliarsi infatti, per l’ambiente, anche al grande paesismo neoclassico romano di cui Tambroni tesse l’elogio e la storia; per le figure, al Canova, di cui non è dubbio che in una di queste bagnanti ritorni il modello della Eva Sommariva ed è quella, guarda caso, che per la sua espressione un poco melensa, derivante dall’iconologia secentesca dell’anima beata, tornerà nella Maddalena hayeziana del ‘25, a testimoniare anche un filtro tra canova e Hayez, oltre alla presa diretta. Pure il viso di questa figura richiama l’espressione del primo ritratto canoviano della Récamier in guisa di Beatrice, ancorché qui si tratti di una bimba poco più che cresciutella e il contesto del racconto sia diametralmente opposto. Occorrerà aggiungere che la rappresentazione regressiva della pubertà delle favole erotiche è anch’essa, non dimentichiamolo, un tropo canoviano. Canoviano è ancora il motivo dei capelli bagnati (dalla Maddalena svenuta, per esempio), come lo è il modellato del nudo femminile da tergo (dalle Grazie), o di quella mano che posa sulle carni di Ila lieve come se poggiasse su una tastiera.
Tra tutti codesti ingredienti emerge lo stile personale dell’artista, che è di una originalità tale da potersi riconoscere a colpo d’occhio, non senza tracce del sedimento culturale autoctono, per esempio di certi nudi del conterraneo Franceschini. Tra le cose più imprevedibili, e però palagiane, sarà da collocare l’acconciatura della naiade bionda in contrappunto col bellissimo vaso d’oro, delle silhouettes (con qualche reminiscenza dai disegni di Flaxman) in rapporto alle variazioni sottili degli incarnati perlacei, rosati, alabastrini; mentre la gestualità circonvoluta rievoca l’antica e la moderna pittura vascolare.
Di fronte a un’opera come questa è inevitabile lasciarsi andare a considerazioni che potrebbero suonare peregrine e non sono, perché proprio solo dalla sua immagine assolutamente nuova e non déjà vue provengono. Si guardino gli atteggiamenti delle teste. Quello della ninfa a sinistra, anche se un poco turgido (ma per necessità tematiche) è di una concretezza di definizione e insieme di un tipo somatico che, se avulso dal contesto, potrebbe esser databile, perché ancora di moda vent’anni dopo, tra gusto tardonazareno e biedermeier. Analogamente quello del giovinetto non ha quasi nulla di strettamente neoclassico ma un’età assai più vaga rispetto al 1810, potrebbe essere di dieci anni innanzi come di dieci dopo: questi volti fan quasi venire alla mente gli Hänsel e Gretel della celebre favola. Le due figure a destra sembrano più databili: di quello dell’una, s’è detto; dell’altra, che è la più ansiosa, si può osservare che per la sua acconciatura impero è l’unica che mostri la propria età. Al di là degli atteggiamenti, cheper certi versi ci restituiscono i loro modelli viventi nelle cui fattezze particolari è chiaro che l’artista li ha lasciati in qualcosa indugiare, sarà da osservare la bellezza del paesaggio così ricco di umori e tinte, talmente ben architettato che potrebbe star su da sè solo, senza figure. Anche in esso non sai se apprezzare più la finzione palpabile del luogo ideale dell’immaginazione, quindi il dato classico, o le diverse maniere in cui esso è dipinto, che vanno appunto dal disegno netto di arbusti o fogliami, che ha l’acume delle pagine d’un erbario, a un pittoresco macchiato tutto di tocco e di gesto, che della natura cerca di trasmettere la vibrazione umida e atmosferica, il respiro silenzioso.
Venendo ora alla fortuna di questo dipinto, fin troppo scarsa a dire il vero, è osservabile che dal lato iconografico è palese che un grande e bel disegno di Bartolomeo Pinelli, del 1824 (Museo di Roma), dipende in qualcosa da questo prototipo, seppure esso sia in chiave classicista (e tuttavia filologicamente meno corretta, perché nel Palagi il solo Ila giustamente ha la clamide) e in un certo senso banalizzato dal contenuto erotico fin troppo ingenuamente illustrativo. Dal lato stilistico non è chi non veda come la pittura di Hayez del momento del suo Rinaldo e Armida, che è del 1813, si rifaccia a questo modello anche se il suo tipo di paesaggio sembra quello di un papier-peint, mentre quello del nostro è ancora “vero”.
Il discorso è importante, perché investe il problema generale del debito di Hayez (che pure dipinse un Ila, oggi sconosciuto) nei confronti del più anziano e provetto collega, quale ho già abbozzato in altra sede. Del resto, come è noto, anche con l’opera ora a Detroit il Palagi veniva a costituire un significativo precedente per Giove e Teti dell’Ingres. Fu il Palagi stesso a invitare Hayez a collaborare con lui a Palazzo Torlonia, come conferma ulteriormente una lunetta in tela da me ritrovata. Tornando all’eredità del nostro quadro sappiamo di un Ila pure del Podesti, che però non è noto. E’ noto invece quello, bellissimo, del Sogni, che tuttavia si colloca ormai troppo defilato da questa rappresentazione, benché un’altra opera capitale di questo maestro, cioè l’Adamo ed Eva, che è del ’38, mostri specie nella figura di quest’ultima, quanto l’Ila del Palagi avesse fato scuola.
Qualche parola resta da spendere sul risvolto emblematico di cotesta favola antica, che era una metafora della morte bella, anche se il Palagi, svolgendone i dati impliciti, la ripropone in un’accezione anche dolente, mischiandola col tema diverso di Salmace ed Ermafrodito (altra favola erotico-fluviale), cioè dell’amore impossibile: ciò che porta il dramma sul paiano dell’ambiguità e a un livello criptico indubbiamente sottile. Il mito dice infatti di un giovinetto amati da Ercole, sceso ad attingere acqua dalla nave degli Argonauti. E dell’involontaria insidia tesagli dalle naiadi del luogo che, concupendolo, ne provocano la caduta nello stagno e l’annegamento. Palagi vi aggiunge il motivo della naturale ritrosità dell’androgino per l’amplesso femminile, e ancora quello della paura (col suggerire la pericolosità del precario equilibrio del giovinetto), dell’incubo (per l’analitica rallentata e quindi ossessiva dei gesti), del presagio della morte (attraverso l’immagine del versamento, simbolo dell’oblio), in una sorta di congesta“selva amorosa”. La quale, al di là delle reminiscenze classicistico-erudite ancora dominanti nello Sposalizio di Psiche, riesce per il suo mero elegiaco del tutto moderna, e affatto romantica, appunto".
Gian Lorenzo Mellini
Testo pubblicato in “Labyrinthos” (12, 1987, pp. 54-71) con il titolo L’“Ila e le ninfe” e altre cose di Pelagio Palagi.
Provenance
Firenze, collezione privataLiterature
G.L. Mellini, L’“Ila e le ninfe” e altre cose di Pelagio Palagi, in in “Labyrinthos” (12, 1987, pp. 54-71); “Pelagio Palagi artista e collezionista”, catalogo della mostra, Bologna 1976, p. 25; S. Rudolph, “Giuseppe Tambroni e lo stato delle belle arti a Roma”, Roma 1982, p. 57; C. Poppi in “Pelagio Palagi pittore”, Milano 1996, pp. 35-36, 260-261.1
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